Ferruccio Arduino Borelli - ⊂•⊃ Pesciantica

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Pesciatini d.o.c.

FERRUCCIO ARDUINO BORELLI (1880-1964)
di Giovanni Nocentini


Del doppio nome che si portavadietro, egli aveva scelto Ferruccio;di fatto, amici e compagni, tutti, lo chiamavano semplicemente Ferruccio, barbiere. Stava sull’uscio della sua bottega quando, nel tardo pomeriggio erano le ‘ore morte’: Ferruccio asciutto di persona, mai scamiciato, spet tava quei due o tre amici che si fermavano da lui a ragionare. E lo facevano volentieri, perché Ferruccio non era soltanto barbiere senza casacca professionale raramente vista da lui indossata; ma egli era un lettore formidabile che aveva divorato tutti i libri, specie di filosofia, storia e religione dalla Biblioteca comunale di Pescia (il buon bibliotecario e Direttore di quel tempo antico, don Gildo Nucci, si sentiva rimescolare vedendoselo apparire, per non sapere quale altro ‘insigne’ suggerirgli), inoltre aveva letto tutti i libri della biblioteca della Curia vescovile del cui Presule egli era il parrucchiere personale. Ferruccio aveva un parlare piano, quasi docile attraversato  epperò, da un lieve senso dell’umorismo naturale, che gli era innato, permettendogli un cer to distacco dalla pesantezza delle faccende quotidiane. Parlava con voce pacata che talora frullava piacevolmente nelle orecchie dell’ascoltatore, facendogli avvertire un distacco dal parlare quotidiano, come un distacco cioè, da schemi quotidiani acquisiti che facevano del suo “dire” una lezione di affascinante ‘verità’. Per tale sua capacità di affrontare un discorso, qualunque esso fosse, quei due o tre amici, certo i più illustri, che passavano da Borgo della Vittoria, si fermavano sull’uscio della bottega di barbiere di Ferruccio Borelli. Per tale motivo egli era il più pericoloso di altri suoi amici e compagni in un arengo dove invece era privilegiata la forza bruta, quasi animalesca, alla sottile sapiente ironia del Ferruccio.
Ormai il Borelli, integerrimo socialista turatiano – già consigliere dell’Associazione di Pubblica Assistenza nei primi anni del 900 e infine, consigliere dell’Am mini strazione comunale – esprimeva le sue idee senza tremore, a viso aperto. E come affrontò il tempo della prima guerra mondiale, 1915-‘16, e quello assai più duro del ‘ventennio fascista’: fu questa l’epoca in cui Ferruccio non si piegò mai. Nemmeno quando tre o quattro ragazzacci,alcuni d’essi venuti anche da fuori,giravano per le strade, qualcuno con un manganello in mano e i pesciatini correvano ratti ai muri delle case fingendo il loro disinteresse. Soltanto qualche donna, specie delle Capanne, si fermava con le mani sui fianchi a guardarli: “E di codesto bastone in mano – diceva alcuna quasi berciando – Icchè te ne fai? quando l’adoperi?”
Già, perché non l’adopera?, non si poteva dire che in quegli ultimi tempi non fossero mancate le occasioni. Erano di fatto, tempi di grandi rivolgimenti, i pesciatini ormai fingevano di non accorgersene. Eppure erano fatti di tutti i giorni, nem meno quando una manciata di giovanotti, taluni in camicia nera, convocarono Ferruccio Borelli, il ‘sov versivo’, alla Ca sa del Fascio. Fer ruccio vi andò con la sua espressione di liscia ironia: “Eccomi!”, disse scorrendo lo sguardo sui volti assai tesi e si vedeva, fanatici. “Eccoli qui i cari pesciatini che vogliono mettere ordine in città”. Ferruccio fingeva di non conoscerli: e quanti sono i pesciatini che li conoscono?
Quanti sanno che i veri pesciatini non sono quelli del “santo manganello” e dell’olio di ri cino? Eccoli qui questi soloni con la ghigna sul volto come fossero usciti poco fa dal buco nero dell’inferno…Prima parlò il segretario del Fascio,usando una voce assai docile anzi,carezzevole; gli altri “giannizzeri”,avevano tutti i loro sguardi puntati sul volto disteso, segnato dalla suaantica incancellabile ironia che faceva innervosire alcuni dei ‘camerati’, che avevano una voglia matta
di menare le mani. Forse era laprima volta che costoro capivano che la ‘loro’ libertà e quella del popolo, erano il saluto fascista e gli applausi all’oratore in camicia nera. Ma Ferruccio si permetteva adesso, quasi di pigliarli in giro, deriderli, di chiamarli: “‘Beveroni’, ma state zitti…”, di farli sentire, insomma, degli intrusi, al di fuori della gente pesciatina e che magari li salutavano con un “‘poerini’! icchè vu volete?
‘na avete ‘na casa, ’na famiglia che v’attende?” Era sicuramente il suo modo di guardare gli arroganti pretoriani, che non era soltanto testimone, ma giudice: Ferruccio, di fatto, guardava costoro non per vedere com’erano quella mattina, ma per giudicarli. Da tale modo di sentirsi guardati avvertivano un certo disagio, anzi si sentivano offesi: tale condizione li metteva a disagio e gli faceva salire agli occhi la loro vituperina rabbia.

Uno alla volta interrogava Ferruccio, ottenendo la stessa invariata risposta: “Ho la mia idea io. E non la cambio”; questa invariata risposta a costoro non garbava punto:“Ci crede tutti morti, finiti, questo bighellone!” Allora uno dei fascisti, forse il piu’ giovane essendo istruito, perché dottore in medicina, alzò un braccio e i ‘camerati’ arretrarono di un passo. Quel giovane fascista s’arrestò a cianche larghe dinanzi al Ferruccio, squadrandolo dell’arroganza che improvvisamente si distese. “O che modi son questi?” disse voltandosi ai ‘camerati’. “Son modi novi! – uno di loro rispose –ma il compagno qui presente, risponderà per benino. Verooo?” “Io ho detto quello che penso.
Pun to e basta”. “ Ehi, giovanotto –disse allora il medico fascista – qui si risponde in una sola maniera: obbedisco!”. “Ma io non posso…”.
“Ah no? non puoiii?”, fece nel modo più becero e cattivo: “Al lo ra – gli gridò infuriato, inarrestabile – pigliati questiiii”, schiaffeggiandolo rab biosamente... Ma Fer ruc cio Borelli restò intrepido: non si la mentò, non farneticò. Non mos se ciglio, che era la maniera di ri spondere a tali violenze. Alla fine, qualcuno lo spinse fuori dalla se gre teria del Fascio: “Vattene a ca sa!” gli gridò mentr’egli si allon tana va: “Questa è la prima lezioneeee!”. Quest’uomo di statura morale supe riore continuò a professare la sua Idea. La guerra passò come un vento mi naccioso: Ferruccio Borelli, membro del C.N.L. pesciatino, or di nò che non nessun antifascista osasse alzare la mano contro un av versario politico. E quando un giorno capitò al Ferruccio un giovane che si lamentava di non aver assistito a esemplari punizioni contro co loro che avevano commesso atti di violenza e offesa, il Ferruccio guardò quel giovane tra il severo e l’ironico, com’era sua natura; ma il suo volto di padre si fece severo e tentennando la testa mise la mano sulla spalla del ragazzo, dicendogli: “Vedi, i figli cominciano con l’amare i genitori, dopo poi, li giudicano infine, forse mai, raramente li perdonano”.Non disse altro: la giornata era finita, la sera passava lenta calando il suo velame sempre più bruno sui tetti delle case, nelle strade e nelle piazze. E veniva la notte. Quel giovane ero io.

 
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